Il foglio: Articolo su crisi ippica con citazione del Presidente Assosnai
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26 dicembre 2011 – ore 17:00
Non c'è tripla per gatti. Mancano i soldi per tenere aperte le piste. Addio febbre da cavallo, addio scommesse. E’ un mondo che se ne va L’ultima curva, dài. Non stringere troppo sullo steccato. L’andatura: aumenta. La dirittura, la sabbia si alza, la velocità aumenta; non rompere, ti prego. Il palo l’ha in fondo: si vede e si sente. Corri bello. Dài, dài, dài. Cavallo e uomo, insieme. Il sulky, le ruote, gli occhialini del driver impolverati, il frustino ancora in mano. Uno sguardo alla tribuna: ci sono giornali che sventolano, la gente che viene giù dalle gradinate, corre per andare a riscuotere, lì nell’androne dell’ippodromo, dove arriva l’effluvio forte e unico delle scuderie e dove si sente forte l’odore del denaro.
Chi non ha mai frequentato un appassionato d’ippica non può capire. Le corse dei cavalli sono state qualcosa di prodigioso, di forte, di trascinante: sono state una stagione entusiasmante di un paese e di un mondo intero. E’ finita, dicono. Primo gennaio 2012: gli ippodromi minacciano di chiudere i cancelli. La crisi, nel mondo dell’ippica, significa finanziamenti insufficienti a tenere aperte le arene delle corse, quei luoghi che per decenni sono stati mitici: combattevano con gli stadi e vincevano. Nel pallone la moltitudine indistinta. Nell’ippica la commistione tra alto e basso: nobiltà e miseria, in un mix che per molto tempo è stato perfettamente equilibrato. Lo stadio era uno svago e basta: era il cervello che si spegneva per due ore. L’ippodromo era un punto d’arrivo o di partenza. Era passione mista a desiderio di denaro, era ritrovo, passerella, salotto. Lì il cervello faceva il contrario: invece di spegnersi, accelerava il lavoro. Si ragionava o sragionava sulle corse, sui cavalli, sui guidatori, sui proprietari, sulle strategie. Piazzato o vincente? Tutti avevano una penna in mano: segnavano il destino cerchiando un nome. Eccolo. Poi tiravano fuori dal borsello un binocolo. Due minuti e mezzo di passione, adrenalina, eccitazione.
Siamo dopo il traguardo, adesso. Quando il palo è già stato superato, sul cavallo è già stata messa la coperta. Ci muoviamo lenti verso le scuderie: si scende, si chiude il box. Che succederà? L’ippica è una parabola discendente, lo sappiamo. Gli ippodromi che rischiano la chiusura, però, devono essere troppo anche per chi ha deciso ormai da anni che questo micromondo di amore e adorazione uomo-cavallo dovesse andare in apnea costante da assenza di liquidità, di fondi, di futuro. Ci sono cinquantamila persone che rischiano di perdere il lavoro, c’è tutto un movimento che per quanto piccolo e per quanto diventato secondario rispetto al resto dei giochi a scommessa.
Francesco Ginestra, presidente Assosnai, lo ripete da giorni: “Forse non s’è capita la gravità del momento. Stiamo distruggendo non soltanto un settore già in crisi, ma anche un pezzo della nostra storia. Si deve tagliare, certo. Lo capisco, ma bisogna farlo in settori che non hanno già subito tagli selvaggi negli anni scorsi. C’è chi può fare qualcosa e lo deve fare: mi riferisco ai ministri dell’Economia e dell’Agricoltura. Loro hanno il potere di salvare un mondo, quello delle corse dei cavalli, che occupa cinquantamila persone e che poi alimenta altri settori. Certo, l’ippica, poi si deve dare regole nuove: deve trovare il modo di creare un circuito di ippodromi privilegiati, deve lavorare a fondo per ridare lustro alla sua immagine. Però, prima di tutto, va salvata. C’è chi può farlo e deve farlo”.
Siamo qui, adesso. Siamo dove non si doveva arrivare. Lo sappiamo: è il tafazzismo dal quale siamo affetti, è la nostra consueta capacità autolesionistica. Che facciamo, però? Li facciamo davvero morire? Macelliamo una parte di noi? Sarebbe come dire che siccome la criminalità aumenta, allora dovremmo togliere la polizia dalle strade: tanto è inutile. L’ippica non è la società, certo. E’ un pezzetto d’Italia che, però, non merita la morte. Ha più appassionati (spesso delusi) di quanti si creda, ha amanti depressi che si sentono abbandonati dal mito nel quale avevano affondato la propria passione.
L’ha scritto Vittorio Feltri, qualche giorno fa sul Giornale: “Tutto finisce. E’ finita anche l’ippica italiana. Dal primo gennaio del prossimo anno, basta corse al trotto e al galoppo. Piste chiuse; addio cavallini miei, amici di una vita ormai giunta all’ultima piegata, la curva da cui intravedi il palo e un brivido scuote il tuo corpo, perché lì vuoi arrivare in testa, alzando la frusta al cielo per celebrare la vittoria. Non ci saranno un’altra volta, un altro brivido, un’altra emozione. Gli ippodromi italiani cessano l’attività, non ce la fanno più; i conti sono saltati da un pezzo, le spese superano gli incassi, le scommesse sono calate, gli appassionati anche, lo stato ha spremuto il limone e ora lo ha gettato nella spazzatura. La gente per giocare gioca ancora, ma non punta più su una criniera al vento e un mantello zuppo di sudore da cui emana un afrore irresistibile, ma affida le sue speranze di battere il destino alle macchinette mangiasoldi, congegni meccanici o elettronici programmati per buggerare chi osa sfidarli. (…) Abbiamo trascurato gli ippodromi, che da luoghi eleganti e mondani, ben frequentati, sono stati trasformati in cloache a cielo aperto, “oasi” per camorristi e mafiosi. Tutto ciò che si poteva fare per distruggere l’ippica l’abbiamo fatto, e ora cinquantamila posti di lavoro – di questi tempi – spariscono. Ci fosse stato da parte di tutti un po’ di amore per i cavalli, non fossero sempre stati considerati carne da macello, oggi non saremmo qui a piangere sulle rovine di uno sport storico e su una branca nobile dell’agricoltura. Siamo stati tenaci nel demolire e abbiamo provocato un disastro tra l’indifferenza dei governi, dell’opinione pubblica e addirittura dei diretti interessati alla sopravvivenza dell’ippica. Termina un’epoca. Ma occorre precisare che il destino dei cavalli era segnato da decenni. I nostri figli e nipoti non sanno neanche quante zampe abbia una giumenta, non l’hanno mai vista. Le televisioni non trasmettono da lustri una corsa. (…). Altro che rimpiangere Varenne, l’ultimo grande campione che ha dato gloria al nostro paese. Qui c’è da rimpiangere una intera civiltà stritolata da una Casta di imbecilli che ha fatto proseliti”. Il tramonto dell’ippica è una sconfitta collettiva. Chi ha visto soltanto l’ultima epoca potrà anche farsene una ragione. Non lo fa, invece, chi ha vissuto la grande epopea delle corse dei cavalli. Perché c’è stato un tempo in cui l’Italia s’è divertita, s’è svagata, ha giocato, ha vinto, ha perso però ha continuato a divertirsi, svagarsi, giocare. Una stagione felice. C’erano momenti in cui le famiglie, e non solo quelle degli allevatori, dei proprietari, dei driver, si mettevano davanti alla tv a guardare il Gran Premio delle Nazioni di San Siro, l’Orsi Mangelli, il Derby di Tor di Valle a Roma o il Gran Premio Lotteria di Agnano. Si ricordano città che diventavano famose per il solo fatto di ospitare gare di ippica. Una rincorsa cominciata alla fine del Settecento. Il primo atto scritto e ufficiale che riguarda cavalli da corsa istituzionalizzati, organizzati e allevati con l’idea di farne degli atleti è un documento del 1773: l’arrivo da Annecy per conto di Vittorio Amedeo II di alcuni cavalli da consegnare al Conte Benso di Cavour, zio di Camillo, per migliorare la razza di appartenenza, la spagnola. Ancora altri documenti risalenti al 1781 fanno riferimento alle scuderie della Regia Mandria di Chivasso che sarà poi trasferita alla Reggia Reale. Nel primo decennio del 1800 le corse si svolgevano a Torino lungo l’attuale corso Francia, dalla Tesoreria verso Rivoli. Risale invece al 14 luglio 1809 l’emanazione del primo regolamento per una corsa a cavallo da svolgersi il successivo 15 agosto, in occasione del compleanno di Napoleone Bonaparte. E nel 1820, il futuro matrimonio di Sua Altezza Reale Maria Teresa di Savoia, figlia del re Emanuele I e Maria Teresa d’Asburgo, con Carlo Ludovico di Borbone, duca di Lucca, fu festeggiato a Torino con una corsa di cavalli, con premi in denaro, 50 doppie nuove da lire venti e 24 metri di nastro di velluto vermiglio al primo classificato. Torino può vantare, per iniziativa del generale marchese Stanislao Corsero di Pamparato e con l’appoggio del re Carlo Alberto, la nascita nel 1835 della prima società di corse denominata Società di Corse, a cui aderì la nobiltà sabauda e più avanti anche il conte Camillo Benso di Cavour. Successivamente in Toscana si costituì la Società di San Rossore. Nel 1855, sempre a Torino, nacque il primo periodico italiano ippico, Giornale della Società Nazionale delle Corse e nel 1856 fu istituito il Premio del Re per cavalli indigeni. Nel 1860 la Società Torinese lanciò il Derby, la sfida delle sfide tra cavalli, il cui nome fu depositato dalla stessa società. Il primo Derby si disputò a Torino, all’ippodromo di San Secondo e Silvio fu il vincitore, un cavallo purosangue nato nelle scuderie del conte Alessandro di Guarente. Nel frattempo a Milano i nobili organizzavano gare al galoppo e a Bologna corse a “sedioli” (l’antenato dell’odierno sulky), o al galoppo. I premi non erano medaglie o soldi ma una coccarda, un nastro, una pergamena, un diploma, una bandiera o solo un riconoscimento che portava onore e successo in società. L’ippica cominciò a essere una cosa seria nel 1885, quando l’ex capitano di cavalleria Giuseppe Ballarini propose la costituzione di una Consociazione Ippica Italiana e del libro genealogico del trottatore indigeno. Alla sua idea aderirono alcune società che organizzavano corse a Bologna, Modena, Padova, Treviso, Parma, Reggio Emilia, Napoli. A Ballarini si deve anche la compilazione di uno statuto e di un regolamento corse che costituirono le basi per lo sviluppo del settore. Arrivò il Novecento e con esso la mitologia pura di uno sport che è gioco, che è società, che è stile di vita. I cavalli, per chi li ama, sono una passione unica e indissolubile. Sono stati per ottant’anni il più popolare ammortizzatore sociale e appiglio per la scalata sociale che ci potesse essere. Perché la forza e poi però anche la debolezza dell’ippica è stata quel mescolamento di classi sociali, di ceti, di livelli che faceva dell’ippodromo il luogo al tempo stesso più elitario e più popolare che ci fosse. Vedevi nobili che trattavano con improvvisati esperti provenienti direttamente dai bassifondi: incalliti giocatori a caccia del colpo della vita che interagivano con sofisticati e benestanti signori a loro volta appassionati della tris. Una commistione di generi raccontata splendidamente da uno dei film più felici della stagione della commedia all’italiana: “Febbre da cavallo”. C’era tutto, lì. C’era il resoconto cronachistico e pure onirico della passione cavallara unita a quella per il gioco condivisa da milioni di italiani. Ricordate il dialogo tra Er Pomata (Enrico Montesano) e l’avvocato De Marchis (Aldo Carotenuto)? “Avvocato De Marchis, i miei rispetti”. “Aaahhh!”. “Avvoca’, mi scusi se la importuno ma mi rivolgo a lei in nome della solidarietà che ci lega da anni”. “Ma quale solidarietà?”. “’A solidarietà equina! Er mondo dei cavalli! Avvoca’, se non ci aiutiamo fra di noi…”. “Guarda Pomata, oggi è una brutta giornata, eh?”. “Avvoca’, solo lei che è giocatore me pò capì: c’ho un cavallo bono ’ppe Agnano. Mi dia una mano, me bastano solo 100.000 lire. E poi lei mi conosce…”. “Apposta perché te conosco…”. “Avvoca’, je basta questo ’ppe garanzia?”. “E che sarebbe?”. “Er libretto de pensione de mi nonna. Mi nonna è na signora!”. “Ma nte vergogni?”. “E manco pe niente! Io poi vinco e je faccio un bel regaletto a nonna”. “Ecco, piuttosto vorrei sapere chi è ’sto cavallo sicuro?”. “Can-can!”. “Can-can? Ma quello è un paralitico!”. “No, nun dia retta avvoca’, è subdolo: pare paralitico, ma quello è un cavallo de Troia avvoca’! Allora?”. “Niente!”. “Avvoca’, va bene questa? 12 grammi senza conta’ a catenina”. “Ah Poma’, è fasulla!”. “Sì, ma è benedetta!”. La febbre da cavallo per molti anni era ovunque. Gli ippodromi erano luoghi mitici. La sera del Gran Premio dei Due Mari, a Taranto, per la gente era meravigliosa: c’erano bambini che arrivavano all’ippodromo e s’emozionavano come se fossero entrati nella sala dei comandi della Nasa. Poi, quei fortunati che potevano, andavano anche a vedere i cavalli nelle scuderie. Venticinque anni fa, non di più. Mai stati vicini a un cavallo da corsa? Mai vissuto accanto a chi lavora ogni giorno per farli crescere, rafforzarli, spingerli verso i limiti? Non serve arrivare a Ribot o a Tornese o a Varenne. Basta Fiorino Bell, che a tre anni fece il record d’Europa, e rese orgogliosa una famiglia del sud per anni. Una, due, tre corse potevano ripagare anni di lavoro e di sacrifici inimmaginabili. Non tanto economicamente, quanto emotivamente. Gli ippodromi, gli animali, i loro allevatori, i loro proprietari, i loro driver o i loro fantini hanno regalato qualcosa che forse oggi sembra incomprensibile, ma che nel momento in cui accadeva aveva qualcosa di magico. Non parliamo di secoli, anche se parliamo di un’altra Italia. Giocare ai cavalli era più nobile del Totocalcio: ci mettevi quel briciolo di vera o presunta conoscenza dei cavalli che faceva la differenza: “Giocati Fulmine, piazzato”. C’erano personaggi incredibili e da film. Tutto quello che una macchinetta telematica non può dare. Poi c’erano e ci sono loro, i cavalli. Che sono speciali. Che sono unici. Che per chi li ama sono una malattia piacevole. Sono l’esistenza di chi li alleva e di chi li mette su una pista per farli essere liberi di correre: è la loro forza. E’ la loro ragione di vita. © – FOGLIO QUOTIDIANO di Beppe Di Corrado